Nomi come “Google”, “Facebook” e “Twitter” sono ampiamente noti e riconosciuti con determinate funzionalità; si è tuttavia ancora poco abituati a valutarli come soggetti politici, in grado di influenzare e contrapporsi a governi nazionali. Non è una novità: anche nel passato, con le multinazionali tradizionali, ci è voluto un certo arco di tempo affinché una potenza venisse riconosciuta dall’opinione pubblica come lobby e soggetto politico. Tuttavia, campagne di disinformazione, mascherate in strategie pubblicitarie, hanno comunque sempre rallentato una presa di coscienza collettiva (e sarebbe da riflettere quanto ora questa coscienza sia effettivamente affinata).
In questo caso ci troviamo di fronte a soggetti che la comunicazione la veicolano, per lo più imponendo nuovi standard e trend comunicativi: l’era della condivisione e le sue nuove regole; spazi sociali virtuali e le sue nuove dinamiche.
Il fronte europeo è sicuramente tra i più caldi per questi colossi, dove trovano crescenti ostacoli da parte dei governi nazionali; difficile capire se si tratti di lungimiranza politica da parte di quest’ultimi o il semplice bisogno di far cassa in tempi di crisi.
L’ultimo aggiornamento arriva dalla Spagna dove il governo Rajoy ha portato in Parlamento una "tassa Google", che obbliga il motore di ricerca a pagar dazio sugli utili che realizza grazie ai contenuti creati da altri, cercando di regolare la proprietà intellettuale con una nuova legge. Questo va inquadrato in un più ampio contesto, ovvero quello delle agevolazioni fiscali (e relative polemiche) di cui godono le multinazionali del settore che hanno sedi in paesi quali Olanda, Irlanda e Lussemburgo.
Rimane latitante la UE, che non ha preso ancora una posizione precisa in materia, senza nemmeno un intervento deciso da parte dell'Antitrust europea. Si annota, tuttavia, una dichiarazione del Commissario Ue Joaquin Almunia, in un'audizione al Parlamento europeo risalente al 23 settembre, in cui parla della possibilità di una nuova indagine «sul possibile reindirizzamento del traffico internet verso i servizi di Google diversi dalla ricerca». Niente più che un avvertimento, ma è chiaro come questa dichiarazione ufficiale dimostri che serpeggino diversi malumori nel suolo europeo.
E’ evidente che questa mossa del governo spagnolo, la prima del suo genere, è destinata ad aprire, sulla lunga distanza, un vaso di Pandora. Google ha reagito, nel suo caratteristico stile marziale, minacciando di smantellare l'edizione spagnola del servizio Google News se questa legge andrà in porto.
Questo è solo uno dei casi, il più recente, di un braccio di ferro tra governi centrali e multinazionali del web. Ricordiamo anche, spostandoci più ad est, l’ultimatum che la Russia ha dato a Facebook, Gmail e Twitter: dovranno collocare i loro database anche in Russia entro gennaio 2015. E’ una richiesta ufficiale, con tanto di legge ad hoc, fatta ai social network e servizi di posta americani -molto diffusi in Russia- di registrarsi come organizzatori di informazione, ossia come media. Cosa che creerà non pochi grattacapi, dato che la Russia non è propriamente tra i primi della classe in termini di libertà di stampa e controllo dei media. Se non verranno rispettati questi termini seguirà una sanzione; dopodiché, se non vi sarà un adeguamento, l'agenzia della comunicazione russa avrà il diritto di includere i siti ribelli nella blacklist, ovvero bloccarli per gli utenti russi.